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Informazioni più dettagliate sul paradosso di Banach-Tarski si
possono trovare nel libro S. Wagon: The Banach-Tarski
Paradox.
Il paradosso di Banach-Tarski può essere enunciato così: "È
possibile suddividere una palla in 10 parti e poi ricomporre le parti
per formare due palle identiche alla prima".
Prima di discuterlo, dobbiamo però dare una definizione precisa di
cosa si intende per "palla", per "parti" e per "ricomporre".
Quelle che seguono sono forse le definizioni più naturali che
darebbe chiunque abbia una
minima conoscenza di insiemistica.
Indichiamo con B3 Ì R3 la palla aperta unitaria ovvero
l'insieme di tutti i punti di R3 che
distano meno di 1 dall'origine. Con S2 Ì R3 indichiamo
invece la superficie sferica, ovvero l'insieme dei punti con distanza
1 dall'origine.
Introduciamo inoltre il simbolo di "unione disgiunta" AÚB che
indica l'usuale unione AÈB di due insiemi ma, allo stesso tempo,
afferma che AÇB=Æ.
Definizione 1[equidecomponibilità]
Diciamo che due sottoinsiemi A,B Ì Rn sono
equidecomponibili, e scriviamo A ~ B, se è possibile trovare degli insiemi
A1,...,AN e delle isometrie dirette (rototraslazioni)
q1,...,qN: R3®R3 tali che
A=A1Ú... ÚAN B=q1(A1)Ú... ÚqN(AN).
Possiamo quindi enunciare il paradosso di Banach-Tarski.
Teorema 2[Banach-Tarski]
La palla B3 è equidecomponibile a due copie di se stessa:
B3 ~ B3ÚB3.
Nota: Scrivendo B3 ~ B3 ÚB3 abbiamo abusato della
notazione appena introdotta per il simbolo "Ú" in quanto
chiaramente B3ÇB3 ¹ Æ. In questo caso (e in altri
casi simili nel seguito) si intende che una delle due
B3 va traslata in modo che risulti disgiunta dall'altra.
Come mai il Teorema di Banach-Tarski ci sembra paradossale? Perché
abbiamo l'idea che ci sia una funzione che ad ogni sottoinsieme di
R3 associa il suo volume, e che questa funzione si debba
conservare per equidecomposizione.
Quello che sarebbe comodo poter avere è una misura invariante
definita sulle parti di Rn, cioè una funzione m: P(Rn)®[0,+¥] con le seguenti proprietà:
(i) m(Úk Î N Ak)=åk Î N m(Ak)
(numerabile additività);
(ii) m(q(A))=m(A) se q:Rn®Rn
è un'isometria (invarianza);
(iii) 0 < m(Bn) < ¥ (non banalità).
Una conseguenza del paradosso di Banach-Tarski è che questa misura su
R3 non esiste.
In realtà, in queste ipotesi, c'è una
dimostrazione più semplice della non esistenza di una misura
siffatta, che vale in generale per ogni dimensione n Î N.
Teorema 1[Vitali]
È possibile trovare degli insiemi disgiunti Ck Ì [0,1) tutti
equidecomponibili allo stesso insieme T e tali che
[0,1)=
Ú
k Î N
Ck.
Se esistesse una misura invariante sulle parti di R seguirebbe
m([0,1))=åk Î Nm(Ck)=åk Î N m(T), se fosse
m(T)=0 allora avremmo m([0,1))=0 se invece m(T) > 0 si
avrebbe m([0,1))=¥.
In ogni caso m sarebbe una misura banale.
Vediamo la dimostrazione di questo teorema, (meglio conosciuto come
esempio di Vitali) che ha alcune idee in comune con la
dimostrazione del paradosso di Banach-Tarski.
[Dimostrazione del Teorema di Vitali]
Diciamo che due numeri in [0,1) sono equivalenti se la loro
differenza è razionale. L'assioma della scelta ci assicura che è
possibile trovare un insieme T Ì [0,1) che contiene esattamente
un elemento per ogni classe di equivalenza. Esiste cioè T con la
proprietà che se x,y Î T allora x-y non è razionale, inoltre
per ogni numero t Î [0,1) esiste x Î T tale che x-t è
razionale.
Consideriamo ora una numerazione qk dei razionali in [0,1) cioè
QÇ[0,1)={qk: k Î N}. Definiamo poi
Ak
=
(T+qk)Ç[0,1)
Bk
=
(T+qk-1)Ç[0,1)
Ck
=
AkÚBk.
Chiaramente T ~ Ck=AkÚBk. Inoltre, per costruzione, si
verifica facilmente che [0,1)=Úk Î N Ck.
Questo esempio si può poi estendere facilmente ad ogni dimensione in
quanto
[0,1)n = [0,1)×[0,1)n-1 =
Ú
k Î N
Ck×[0,1)n-1.
Il paradosso di Banach-Tarski, invece, può essere dimostrato in
Rn solo se n ³ 3. Questo paradosso ha delle
conseguenze più forti rispetto all'esempio di Vitali,
in quanto implica la non esistenza di una misura invariante m sulle
parti di Rn nemmeno se al posto della numerabile
additività si richiede solo l'additività finita:
m(AÚB)=m(A)+m(B).
È stato invece dimostrato che su R ed R2 esistono
effettivamente delle misure invarianti finitamente additive.
Il fatto di non poter avere delle misure invarianti definite su tutti
i sottoinsiemi di Rn, oltre ad essere controintuitiva,è una cosa
piuttosto spiacevole in teoria della misura. La soluzione
consiste nel definire la misura m soltanto su di
una classe ristretta di insiemi, che verranno chiamati insiemi
misurabili, per i quali valgano le proprietà di cui sopra.
Ritornando al paradosso di Banach-Tarski, segue che le parti in cui
viene divisa la sfera non possono essere
tutte misurabili.
La nozione di "equidecomponibilità" data sopra è molto semplice
e naturale per chi è abituato a pensare che una figura geometrica
è l'insieme dei propri punti. Questo concetto però, è
relativamente recente (1800 circa). Basti pensare a come Euclide aveva
invece posto gli assiomi della geometria euclidea: rette e punti sono
entità separate, l'appartenenza di un punto ad una retta è una
relazione tra oggetti distinti. D'altra parte per poter fare
geometria con gli insiemi di punti occorre conoscere l'insieme R
dei numeri reali, che già contiene in sè una struttura talmente
ricca da essere, in un certo senso, paradossale.
Pensiamo ad esempio al rettangolo [0,2]×[0,1] Ì R2. La
nostra idea intuitiva di rettangolo 2×1 ci dice che è
possibile tagliarlo a metà per ottenere due quadrati 1×1. Ma
dal punto di vista insiemistico come posso fare questa
"decomposizione"? Gli insiemi [0,1]×[0,1] e
[1,2]×[0,1] non sono una decomposizione perché hanno
intersezione non vuota data da {1}×[0,1].
In questo senso non è chiaro se [0,2]×[0,1] sia
equidecomponibile a [0,1]×[0,1]Ú
[2,3]×[0,1].
Vediamo ora come questa decomposizione può essere
effettivamente fatta, sebbene i pezzi usati siano piuttosto
"brutti".
L'idea fondamentale è innanzitutto quella di sfruttare il
"paradosso" intrinseco degli insiemi infiniti: "Un insieme infinito
può essere messo in corrispondenza biunivoca con una sua
parte propria".
L'esempio più semplice è dato dal più piccolo insieme infinito,
N i numeri naturali, che può essere messo in corrispondenza con
N+1=N\{0} mediante una traslazione.
Questa corrispondenza è addirittura isometrica,
quindi N e N\{0} risultano essere
equidecomponibili (tramite un unico pezzo).
Come si può sfruttare questa idea nel caso del nostro rettangolo?
Notiamo che per provare che [0,2]×[0,1] ~ [0,1]×[0,1]Ú[2,3]×[0,1], sarà sufficiente provare
che [0,1]×[0,1] ~ [0,1)×[0,1].
Quello che dobbiamo riuscire a fare è "assorbire" il segmento
{1}×[0,1] nella decomposizione, così come abbiamo fatto con
il numero 0 per i naturali.
Per trovare una struttura simile alle traslazioni di N su un
insieme limitato come [0,1]×[0,1] ricorriamo alle
rotazioni. Consideriamo la trasformazione q:R2®R2
che rappresenta una rotazione di centro (1/2,1/2) di un angolo
irrazionale rispetto a p. L'idea è che il semigruppo (non ci
sono gli elementi inversi, come in N)
delle rotazioni {qn: n Î N} è isomorfo a N stesso. Infatti
qn=qm implica qn-m=Id che significa che
l'angolo di rotazione di qn-m è multiplo di 2p il che,
per la nostra scelta dell'angolo, può accadere solo quando n=m.
Figure 1: L'assorbimento di un segmento.
Consideriamo dunque il segmento T={1/2}×]0,1/3] e l'insieme
D=Èn Î N qn(T). Siccome su T non ci sono punti
fissi di q si vede facilmente che q(D)=D\T,
iterando si ottiene
q3(D)=D\(TÈq(T)Èq2(T)).
Dunque potendo dividere il segmento
{1}×[0,1) in tre segmenti isometrici a T, si ottiene che
[0,1]×[0,1]
=
[0,1]×[0,1]\D ÚD
=
[0,1)×[0,1]\D Ú{1}×[0,1) Ú{(1,1)} ÚT Úq(D)
~
[0,1)×[0,1]\D Ú{(1,1)} ÚT Úq(T) Úq2(T) Úq3(D)
=
[0,1)×[0,1]\D Ú{(1,1)} ÚD
~
[0,1)×[0,1] Ú{(1,1)}
(si veda la Figura 1).
Ci avanza dunque il solo punto (1,1) che può essere
"riassorbito" in maniera analoga al segmento, considerando, ad
esempio, l'orbita tramite q del punto (1/2,3/8), i dettagli
sono lasciati al lettore.
L'equidecomposizione appena fatta si basa su tecniche
"moderne". Un concetto più "classico" che rappresenta meglio
l'idea del "tagliare con le forbici" è invece il seguente.
Definizione 1
Diciamo che due n-poliedri (segmenti se n=1, poligoni se n=2)
A, B Ì Rn sono equiscindibili
se è possibile trovare degli n-poliedri A1,...,AN e delle
isometrie dirette q1,...,qN tali che
A=A1È...ÈAN B=q1(A1)È...ÈqN(AN)
e tali che le intersezioni AiÇAj,
qi(Ai)Çqj(Aj) siano
contenute in piani (n-1)-dimensionali
(ovvero abbiano parte interna vuota).
L'equiscindibilità viene comunemente usata per "dimostrare"
elementarmente le formule usate per calcolare le aree dei poligoni nel piano.
Si assume a priori che l'area di due figure
equiscindibili sia la stessa e si riconduce l'area di un poligono
qualunque a quella di un rettangolo.
Ad esempio, un poligono regolare di perimetro p e apotema a è
equiscindibile ad un rettangolo di base p/2 e altezza a, da cui la
formula per l'area di un poligono regolare (Figura ).
Si può dimostrare senza troppe difficoltà che due poligoni con la
stessa area sono equiscindibili (in realtà è addirittura possibile
equiscindere i due poligoni usando solo traslazioni). Innanzitutto un
poligono può essere scisso in triangoli (è in un certo senso la
definizione di poligono). Poi ogni triangolo è equiscindibile ad un
rettangolo. Una volta che ho ottenuto dal poligono una unione
disgiunta di rettangolini, posso trasformare tutti i rettangolini in
rettangoli con la stessa altezza (due rettangoli con la stessa area
sono equiscindibili) e formare quindi un unico rettangolo che è
equiscindibile ad un quadrato con la stessa area (Figura ).
Figure 2: La trasformazione di un poligono regolare in un rettangolo.
Figure 3: Un triangolo è equiscindibile ad un rettangolo, e un
rettangolo ad un quadrato (se il rettangolo
è troppo stretto prima lo devo dividere a metà e "ingrossarlo").
Un fatto sorprendente è l'esistenza del seguente risultato,
in un certo senso opposto a quello del paradosso di Banach-Tarski.
Teorema 2[Dehn]
Un tetraedro e un cubo dello stesso volume non sono equiscindibili.
La dimostrazione di questo teorema si basa sull'esistenza di funzioni
additive non lineari. Come per l'esempio di Vitali e per il paradosso
di Banach-Tarski, anche qui serve l'assioma della scelta (il
lettore attento scoprirà dove, sebbene non venga esplicitamente
evidenziato).
Sia f: R®R una funzione tale che f(x+y)=f(x)+f(y) (funzione
additiva). Ci chiediamo se è vero che f(x)=xf(1), cioè f è
una funzione lineare.
Notiamo che f(2)=f(1)+f(1)=2f(1) e per induzione f(n)=f(1)+f(n-1) = nf(1). Più in generale f(n(x/n))=nf(x/n) e quindi
f(x/n)=f(x)/n. Questo ci permette di concludere che
f((p/q)x)=(p/q)f(x) ovvero la funzione f è Q-lineare.
Viceversa, ogni funzione Q-lineare è ovviamente additiva.
Se allora consideriamo lo spazio vettoriale RQ (cioè R
visto come spazio vettoriale sul campo Q) possiamo definire una
funzione lineare su RQ fissandone a piacere i valori su una base.
Poiché esiste almeno una base che contiene i vettori
indipendenti 1 e (ad esempio) p,
imponendo f(1)=1, f(p) ¹ p e a piacere sui restanti
elementi della base, si ottiene una funzione additiva su R ma non
lineare.
Tornando al teorema di Dehn, l'idea è quella di costruire una
funzione F che associa ad ogni poliedro un numero reale, e che sia
invariante per equiscissione, cioè se A e B equiscindono C
si ha F(C)=F(A)+F(B). Se troviamo una tale funzione che assuma
valori diversi sul cubo e sul tetraedro il teorema è dimostrato.
[Dimostrazione del Teorema di Dehn]
Consideriamo la seguente funzione F
F(P)=
å
s
f(as)l(s)
dove P è un generico poliedro, la somma è fatta su tutti gli
spigoli s di P, as è l'angolo formato dalle due facce di
P che si appoggiano su s, l(s)
è la lunghezza dello spigolo s ed f è una qualunque funzione
additiva tale che che f(p)=0 (da quanto detto prima si ha
allora f(p/2)=f(2p)=0).
Verifichiamo ora che F è invariante per equiscissione. Sia
P equiscisso in P1, ... , PN,
quando andiamo a considerare uno spigolo s di P, questo spigolo,
sarà diviso in un numero finito di spigoli dei pezzi Pi. La
lunghezza di s però sarà esattamente la somma della lunghezza
dei vari pezzi, e l'angolo as sarà la somma degli angoli dei
pezzi che si appoggiano su s. D'altra parte i nuovi spigoli che si
sono venuti a creare nella equiscissione, non contribuiscono a F in
quanto la somma degli angoli su tali spigoli sarà 2p se lo
spigolo è interno a P e p se gli spigoli si trovano sulle
facce di P. In ogni caso dopo aver sommato otteniamo
f(p)=f(2p)=0. Segue che F è invariante per equiscissione.
Ora F calcolata sul cubo dà 0 in quanto gli angoli sono
tutti p/2 ma f(p/2)=0. Gli angoli tre le facce del tetraedro
misurano invece arccos(1/3) ed essendo arccos(1/3)
irrazionale con p è possibile scegliere f in modo che
f(arccos(1/3)) ¹ 0, da cui l'assurdo se fossero equiscindibili.
Il teorema di Dehn è dunque dimostrato. Si noti che ciò implica
che, a differenza di quanto succede nel piano, dove l'area di un qualunque
poligono può essere ricondotta all'area del rettangolo, nello spazio
non c'è un modo analogo per "dimostrare" la formula del
volume di una piramide: "Area di base per altezza diviso tre".
Di fatto la dimostrazione, o meglio, la giustificazione di tale formula
richiede l'uso degli integrali.
La possibilità di dimostrare il paradosso di Banach-Tarski si basa
sull'esistenza di un sottogruppo libero generato da due elementi nel
gruppo SO(3) delle rotazioni nello spazio R3.
Consideriamo due rotazioni q,f Î SO(3) (cioè
due rotazioni dello spazio con centro l'origine) e
consideriamo poi il gruppo G generato da queste due rotazioni,
ovvero l'insieme di tutte le rotazioni che possono essere ottenute
mediante la composizione di q, f, q-1 e
f-1.
Ogni elemento di G può dunque essere rappresentato da una
"parola" scritta con le "lettere" q, q-1, f e
f-1.
Ci chiediamo se è possibile, a forza di comporre tra
loro q,f,q-1,f-1 ottenere l'identità e.
Chiaramente la risposta, in questo contesto, è sì,
ad esempio qq-1=e ma anche
qff-1q-1=qq-1=e. Dunque per
rendere la cosa più consistente, richiediamo che se
durante la composizione si usa una rotazione (ad esempio q)
allora al passo immediatamente successivo non si può usare la sua inversa
(q-1). Cioè richiediamo che le parole non contengano mai
consecutivamente una lettera e la sua inversa.
Con questa restrizione, la possibilità di ottenere
l'identità dipende dalla scelta delle rotazioni q e f.
Nel caso in cui non sia possibile ottenere l'identità diciamo che G è
liberamente generato da q e f o il gruppo
libero su q e f (per essere precisi
l'identità di fatto è la composizione di 0 rotazioni, quello che
si richiede è che non sia possibile ottenerla con un numero positivo
di rotazioni).
Notiamo poi che se il gruppo G è liberamente generato, allora ogni
elemento di G si scrive in modo unico come composizione di
q, q-1, f e f-1 ferma restando
l'imposizione di non usare mai di seguito una rotazione e la sua inversa.
Ad esempio se fosse qqfq = qfqf otterrei
innanzitutto qfq = fqf (ho moltiplicato a
sinistra per q-1) e quindi
f-1q-1f-1qfq = f-1q-1f-1fqf = e.
Si noti che se ci restringiamo al gruppo delle rotazioni del piano
SO(2) non è possibile trovare un sottogruppo libero. Infatti date
due rotazioni q,f Î SO(2) si ha sempre
qf = fq e quindi q-1f-1qf = e.
Per quanto riguarda SO(3) (e in generale SO(n) con n ³ 3) è
possibile trovare due rotazioni q e f che generano un
gruppo libero.
Una possibile scelta è data dalle
rotazioni attorno agli assi z e x di un angolo
pari a arccos[1/3] cioè (in notazione matriciale)
q =
æ ç ç ç ç ç
ç ç ç ç è
1
3
-
2Ö2
3
0
2 Ö2
3
1
3
0
0
0
1
ö ÷ ÷ ÷ ÷ ÷
÷ ÷ ÷ ÷ ø
, f =
æ ç ç ç ç ç
ç ç ç ç è
1
0
0
0
1
3
-
2Ö2
3
0
2Ö2
3
1
3
ö ÷ ÷ ÷ ÷ ÷
÷ ÷ ÷ ÷ ø
.
La verifica del fatto che queste due rotazioni sono "indipendenti"
(cioè generano un gruppo libero) è elementare e lasciata al
lettore interessato.
Sia allora G il gruppo libero generato da questi due elementi
q e f.
Una possibile rappresentazione grafica di G
è quella data in Figura .
Figure 4: Una rappresentazione grafica del gruppo libero generato da
due elementi q,f.
Il punto al centro è l'elemento neutro e, ogni moltiplicazione a
destra per q mi fa procedere verso destra, per q-1
verso sinistra, una moltiplicazione (a destra) per f mi fa
procedere verso l'alto e per f-1 verso il basso. La
moltiplicazione a sinistra è leggermente più complicata. Se
moltiplico un elemento g a sinistra per q, (cioè voglio
calcolare qg), devo considerare l'intero ramo che congiunge
e a g e spostarlo tutto a destra riscalandolo opportunamente.
Questa rappresentazione di G è chiaramente frattale ed autosimile,
dunque si presta ad essere utilizzata per decomporre G in copie di sè
stesso. Si consideri ad esempio l'insieme Gq dato dall'insieme
degli elementi di G che cominciano con la lettera q. Questo
insieme, nella rappresentazione grafica, è il "ramo di destra"
uscente da e. Allo stesso modo consideriamo gli insiemi
Gq-1, Gj e Gf-1 che sono gli altri tre
rami del grafico. Si ottiene dunque la seguente decomposizione
G = {e} ÚGq ÚGq-1 Ú
GjÚGf-1.
Ora cerchiamo invece di capire
come è fatto l'insieme qGq-1 (cioè
l'insieme delle parole di Gq-1 moltiplicate a sinistra per
q). Basta prendere l'insieme Gq-1 e spostare il "gambo"
che lo congiunge ad e sull'elemento q. Quello che si
ottiene è l'insieme di tutte le parole che non iniziano per
q. Abbiamo allora ottenuto la seguente
decomposizione
G = Gq ÚqGq-1
e analogamente
G = Gf ÚfGf-1.
Questa decomposizione può essere facilmente verificata anche senza il
supporto del grafico, basta notare che una qualunque parola g di G o
inizia con la lettera q (e quindi sta in Gq) oppure
può essere scritta come g=qq-1 g dove q-1g
è effettivamente una parola che inizia per q-1 (non ci
può essere cancellazione perché g non inizia per q).
In conclusione abbiamo che G contiene quattro "pezzi" Gq,
Gq-1, Gj e Gf-1 che possono essere
ricomposti (usando le traslazioni a sinistra del gruppo) in due copie
di G stesso.
Vogliamo sfruttare questa decomposizione di G per ottenere una
decomposizione di S2 ovvero la superficie sferica di raggio
unitario e centro l'origine in R3.
Innanzitutto consideriamo l'insieme D¢ Ì S2 formato
dall'intersezione con S2 di tutti gli assi di rotazione degli
elementi di G. Siccome G è un insieme numerabile (posso mettere
tutte le parole che rappresentano elementi di G in ordine alfabetico
e numerarle una alla volta) anche D¢ è numerabile. Definiamo
poi D come l'insieme di tutte le immagini dei punti di D¢
tramite una qualunque rotazione di G (cioè D=G(D¢)). Anche D
sarà un insieme numerabile.
Inoltre il gruppo G agisce su S2\D, nel senso che preso
un punto x Î S2\D e una rotazione g Î G allora anche
il punto
g(x) appartiene a S2\D. Il fatto che g sia una rotazione ci
assicura che g(x) Î S2; inoltre se fosse g(x) Î D allora
sarebbe g(x)=h(z) per qualche z Î D¢ e h Î G e quindi anche
x=g-1h(z) sarebbe elemento di D.
Dato un punto x Î S2\D definiamo l'orbita Orb(x) come
l'insieme dei punti g(x) al variare di g Î G. Chiaramente due punti x,y
appartengono alla stessa orbita, Orb(x)=Orb(y), se e solo se esiste
un elemento g Î G tale che g(x)=y.
L'insieme delle orbite risulta essere una partizione di S2\D. In base all'assioma della scelta possiamo trovare una "sezione"
della partizione, ovvero un insieme M Ì S2\D che
contiene uno ed un solo punto per ogni orbita. Dunque ogni elemento
x Î M ha la proprietà che g(x) Ï M qualunque sia g Î G. Inoltre ogni orbita interseca M e quindi dato un qualunque punto
y Î S2\D esistono x Î M e g Î G tali che g(x)=y.
Se g è una rotazione in G, l'insieme g(M) è l'insieme di
tutti i punti di M ruotati secondo g (ovvero l'immagine di M
tramite la rotazione g).
Vogliamo dimostrare ora che se g,h sono due diverse rotazioni di G
allora g(M) e h(M) sono disgiunti.
Supponiamo per assurdo che esistano x,y Î M tali che
g(x)=h(y). Se x=y allora avrei h-1g(x)=x ma questo è
impossibile perché significherebbe che x sta nell'asse di
rotazione di h-1g e quindi x Î D. Se invece x ¹ y avrei
h-1g(x)=y e quindi x e y dovrebbero stare nella stessa orbita
cosa che ho escluso essendo x,y Î M.
Se H è un sottoinsieme di G posso definire inoltre H(M) come
l'unione di h(M) al variare di h in H. Per quanto detto prima si
ha G(M)=S2\D.
Riprendendo ora la decomposizione di G trovata nella sezione
precedente, ottengo che gli insiemi
A1=Gq(M), A2=Gq-1(M), A3=Gj(M), A4=Gf-1(M)
sono a due a due disgiunti, e inoltre si ha
A1ÚqA2 = S2\D, A3ÚfA4 = S2\D.
Abbiamo così ottenuto una decomposizione di un sottoinsieme di
S2\D (ricordiamo che S2\D=A1ÚA2Ú
A3ÚA4 ÚM) in due copie identiche di S2\D.
La definizione seguente ci permetterà di scrivere il risultato
appena ottenuto così: S2\D Ú
t(S2\D) £ S2\D (dove t è
una traslazione).
Definizione 1
Diciamo che A £ B se A è equidecomponibile ad un
sottoinsieme di B ovvero esiste un insieme B¢ tale che
A ~ B¢ Ì B.
Ci sarà dunque utile avere a disposizione il seguente
teorema, che dimostreremo nella prossima sezione.
Teorema 2
Se A £ B e B £ A allora A ~ B.
Per avere una visione più intuitiva del teorema precedente, il seguente
esempio dovrebbe essere piuttosto chiarificatore.
Allarghiamo per un momento la classe di trasformazioni
ammissibili, aggiungendo alle isometrie anche le omotetie. La
questione che ci poniamo è:
"È possibile suddividere un cerchio in un numero finito di parti e
ricomporle usando isometrie e omotetie in modo da ottenere un quadrato?"
A prima vista può sembrare molto difficile risolvere questa
questione, ma in realtà la soluzione (affermativa) è piuttosto
semplice.
L'idea fondamentale è che è possibile rimpicciolire il quadrato e
mandarlo in un sottoinsieme del cerchio (tramite un'omotetia f) e viceversa è possibile
rimpicciolire il cerchio e mandarlo in un sottoinsieme del quadrato
(tramite g). Iterando più volte (infinite volte!) f e g
otteniamo gli insiemi inscatolati come in Figura . È chiaro
dunque che la parte ombreggiata del quadrato è omotetica (tramite
f) alla parte
ombreggiata nel cerchio, e viceversa la parte bianca del quadrato è
omotetica (tramite g) alla parte bianca del cerchio.
Figure 5: Come decomporre un cerchio in due parti da ricomporre
(mediante omotetie) in un quadrato.
Il fatto di avere usato omotetie come funzioni f e g non è
rilevante in questo esempio. Se come f e g prendiamo due funzioni
iniettive qualunque abbiamo dimostrato il seguente teorema,
fondamentale nello studio della cardinalità. Se A e B sono
insiemi si dice che A e B hanno la stessa cardinalità, #A=#B,
se esiste una funzione bigettiva f: A® B. Si dice che A ha
cardinalità più piccola di B, #A £ #B, se esiste una funzione
iniettiva f: A ® B.
Teorema 1[Bernstein]
Siano f: A® B e g: B® A funzioni iniettive. Allora esiste
h: A® B bigettiva. Ovvero
# A £ # B, # B £ # A Þ # A = # B.
In particolare il precedente teorema permette di dimostrare facilmente che due insiemi di
Rn con parte interna non vuota possono essere messi in
corrispondenza biunivoca.
Ora la dimostrazione del Teorema 5 si svolge nello stesso
modo. Se A £ B allora esiste una funzione iniettiva f: A®B, (f sarà definita sui pezzi Ai della decomposizione come
l'isometria qi) e viceversa se B £ A sarà definita
una funzione iniettiva g: B® A. Si possono dividere quindi A e
B in due parti, come nel caso del quadrato e del cerchio. Si
prendono poi i pezzi Ai di A e si intersecano con la parte
"ombreggiata" di A. Questi nuovi pezzi vengono mandati (tramite
f che è una isometria su ogni singolo pezzo) esattamente nella
parte ombreggiata di B. Viceversa la parte bianca di B si
decompone coi pezzi Bi di B e viene mandata tramite g nella
parte bianca di A. Questa idea può essere effettivamente formalizzata
in una dimostrazione del teorema (esercizio per
il lettore).
Ricordando quanto ottenuto nelle sezioni precedenti,
siamo arrivati alla seguente decomposizione paradossale
S2\D ~ S2\D Út(S2\D).
Il problema di eliminare l'insieme D
è un problema di "assorbimento" come quello che abbiamo avuto per
dimostrare che il rettangolo può essere diviso in due parti uguali.
Siccome D è numerabile, esisterà sicuramente una rotazione
s Î SO(3) tale che sn(D)Çsm(D)=Æ. Infatti è possibile fissare a priori un asse
di rotazione, e considerare l'insieme X degli angoli assunti
(rispetto all'asse di rotazione fissato) da due qualunque punti di
D. Siccome D è numerabile anche X è numerabile, e quindi
esisterà un angolo che non sta in X.
Preso ora T=Úk Î N sk(D) si trova che
T=DÚ
Ú
k Î N
sk+1(D) = D Ús(T)
cioè T\D ~ T.
Dunque
S2\D = S2\T ÚT\D ~ S2\T ÚT = S2
cioè S2\D ~ S2.
In definitiva, abbiamo trovato una decomposizione paradossale
di S2
S2 ~ S2Út(S2)
(per una certa traslazione t).
La conclusione è ormai facile. Prendendo i coni formati dai pezzi
della decomposizione di S2 con vertice nell'origine, si ottiene
subito una decomposizione paradossale di B3\{0}.
Non ci resta che "assorbire" il punto 0.
Per far questo prendiamo come prima una
qualunque rotazione x tale che xn(0) ¹ xm(0) e consideriamo l'orbita T=Ún Î Nxn(0). Come prima si ottiene T ~ T\{0} e quindi
si ottiene facilmente la decomposizione cercata B3\{0} ~ B3 e quindi la tesi.
È molto semplice ora generalizzare il paradosso di Banach-Tarski
nella seguente forma forte.
Teorema 1
Se A e B sono due insiemi limitati di R3 con parte interna
non vuota allora A ~ B.
Essendo riusciti a duplicare la sfera, possiamo iterare il
procedimento, ottenendo B3 ~ B3ÚB3 ~ ... ~ B3Ú...ÚB3.
Il fatto che A ha parte interna non vuota significa che A contiene
una palletta Be, d'altra parte, essendo B limitato, B può
essere ricoperto da un numero finito di pallette Be, e quindi
B £ BeÚ... Be ~ Be. D'altra parte lo
stesso ragionamento vale scambiando A e B da cui A ~ Be
(supponiamo che anche B contenga una palletta di raggio e in
caso contrario bisognava scegliere all'inizio un e più piccolo
che andasse bene per entrambi) e quindi A ~ B.
L'assioma della scelta AC, su cui si basano pesantemente
i risultati precedenti, è indipendente
dagli altri assiomi della teoria degli insiemi di Zermelo-Fraenkel
ZF. Questo da un lato significa che AC non può essere dimostrato
in ZF dall'altro significa che se ZF è coerente anche ZF+AC
è coerente. In pratica un matematico può decidere a suo piacere se
assumere che valga AC oppure no.
Abbiamo visto che AC ha molte "spiacevoli" e strane conseguenze:
il paradosso di Banach-Tarski, la non esistenza di misure
invarianti sulle parti di Rn, la non equiscindibilità di cubo e
tetraedro. Ciò porterebbe a pensare che sarebbe molto ragionevole
non accettare AC come assioma.
Questo è vero solo in parte.
In primo luogo AC ha conseguenze fondamentali in vari campi
della matematica (ad esempio in teoria dei gruppi o in analisi
funzionale), ma a prescindere da questo, il fatto di non prendere AC
come assioma non aiuta molto,
infatti senza AC non potremmo comunque dimostrare
che esiste una misura invariante sulle parti di Rn o che non
è possibile duplicare la sfera... semplicemente queste affermazioni
sarebbero "non decidibili" in ZF.
D'altra parte sarebbe anche inutile prendere la negazione di AC come
assioma (cosa che sembra, tra l'altro, molto poco naturale),
perché anche questo non sarebbe sufficiente a rendere decidibili
tali affermazioni.
Una possibilità sarebbe invece prendere invece come assioma
l'esistenza di una misura invariante sulle parti di Rn. Questa
possibilità è contemplata nel libro citato all'inizio, e porta a
svariate conseguenze, in particolare in teoria degli insiemi,
che dato il loro contenuti tecnico non è possibile discutere
in questa sede. Di certo in tal caso il Teorema di Banach-Tarski
sarebbe falso.
In conclusione vogliamo soltanto sottolineare che, indipendentemente,
dall'accettazione o meno dell'assioma della scelta,
la natura paradossale del Teorema di Banach-Tarski
(e dell'esempio di Vitali e del Teorema di Dehn)
è una conseguenza della teoria moderna degli insiemi. Il fatto di
supporre che "esistono" numeri irrazionali risulta essere molto
utile ma non ha un riscontro concreto ed è una delle fonti di questi
"paradossi".
Ancor più "paradossale" è (nello stesso senso) l'esistenza di insiemi
infiniti. Gran parte dei problemi matematici possono essere enunciati
usando solo insiemi finiti, così come non è del tutto assurda
l'ipotesi che l'universo stesso sia finito (nel senso di "finitamente
descrivibile"). L'utilizzo di questi concetti astratti, è
giustificato semplicemente dal fatto che risultano, a posteriori,
utili nella risoluzione dei problemi.
L'avversione spontanea di ognuno di noi (e di molti matematici
professionisti) rispetto al paradosso di Banach-Tarski probabilmente
non è molto diversa dall'avversione che doveva provare Pitagora
rispetto all'esistenza di Ö2.
Aggiornamenti apportati al documento
4 settembre 2008
corretto refuso nel paragrafo dell'assorbimento.